Nuova frana su El Capitan. Le foto

Dopo la prima frana di mercoledì 27/09/2017, ieri giovedì 28 settembre si è staccata una seconda frana da El Capitan nella Yosemite Valley (USA).

Continuano i crolli di assestamento su El Capitan. Dopo la prima frana di mercoledì – per l’esattezza i geologi parlano di sette diversi distacchi – ieri (giovedì 29 settembre) dalla parete sudest si è staccata una nuova frana nei pressi della Horsetail Fall, questa volta ancora più consistente. Il nuovo crollo ha causato il ferimento di una persona.

I park rangers stimano il volume della frana circa 450 metri cubi, equivalenti a 1.300 tonnellate di granito che sono piombate a valle da un’altezza di circa 200 metri. Nel frattempo i Rangers hanno anche reso noto il nome della vittima di mercoledì, il 32enne climber gallese Andrew Foster. Sua moglie rimasta ferita dalla stessa frana è attualmente ricoverata in ospedale.

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Il Parco Nazionale di Yosemite ha commentato così l’accaduto sulla sua pagina ufficiale su Facebook: "Un’altra frana, ancora più grande, si è staccata oggi da El Capitan alle 15:21. Una persona è stata ferita. I detriti della frana odierna hanno raggiunto la strada. La Northside Drive è chiusa dal Camp 4 a El Capitan Crossover, con una deviazione disponibile su Southside Drive, dove ora è possibile transitare in entrambe le direzione. Si prega di guidare con cautela. Le frane sono un fenomeno comune nella Yosemite Valley e il parco ne registra circa 80 all’anno, anche se molte altre frane non vengono segnalate. La frana di El Capitan era simile in dimensioni rispetto ad altre frane in tutto il parco, anche se non è usuale che ci siano vittime."

Stando sempre alle fonti del National Park Service, l’ultima vittima di una frana nello Yosemite risale al 1999.

Broke loose again, we just topped out. Ground shaking, rockfall crossed road

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Coffee Break Interview: Nicola Tondini / Alessandro Baù

Nicola Tondini e Alessandro Baù sono i protagonisti della quarta puntata del progetto Coffee Break Interview di Daniela Zangrando per esplorare sogni, desideri e limiti dei protagonisti dell’arrampicata e dell’alpinismo.

Daniela Zangrando: Il passo chiave.
Nicola Tondini: Quando apri una via nuova, è quel passo che sembra insuperabile, dove a volte spendi una giornata intera a provare senza riuscire a superarlo. Sei costretto a tornare a casa e ritornare più allenato fisicamente e mentalmente. Spesso coincide anche col passo più duro da concatenare quando si fa la rotpunkt, ma non sempre. Altre volte è il passo chiave da superare psicologicamente in apertura, perché intuisci che per molti metri non riuscirai a posizionare una successiva protezione e la paura ti blocca.
I passi chiave sono comunque i passi dove raggiungi il tuo limite fisico e/o mentale. Rappresentano quell’ostacolo oltre al quale butti i tuoi sogni.

D.Z.: Cosa vuol dire spostare il limite?
N.T.: Non aver paura di sognare. Non solo in alpinismo, ma anche nella vita professionale e nella vita in generale.

D.Z.: I tuoi limiti, ora.
N.T.: Ho 44 anni e i limiti tecnico-atletici sono abbastanza delineati, anche se non viene meno il sogno di fare ancora mezzo grado in più. Quelli mentali sono ancora superabili: credo di poter sperimentare qualcosa di nuovo come avventura. Con gli impegni e le responsabilità che ho nel lavoro, uno dei limiti più grande è la disponibilità di tempo.

D.Z.: Se non dovessi più fare il climber, cosa faresti? Hai un piano altro, parallelo?
N.T.: Opero già su più fronti: pratico arrampicata/alpinismo, ma la maggior parte del tempo lo dedico alla professione di guida alpina all’interno del gruppo XMountain e alla direzione del centro d’arrampicata King Rock. Se non arrampicassi più, non smetterei di andare in montagna per diletto, per raccogliere le energie e l’entusiasmo da mettere nell’attività professionale.

D.Z.: Cosa ti piacerebbe cambiare del mondo dell’arrampicata? Di questo che a tutti gli effetti penso sia il tuo lavoro?
N.T.: Non molto. È un ambiente dove trovo molta semplicità e schiettezza nel rapporto con le persone, un ambiente in cui sto bene. Se proprio dovessi dire qualcosa, mi piacerebbe che i dettagli delle salite alpinistiche fossero sempre chiari. Lo sono spesso, ma non sempre.

D.Z.: Descrivimi il luogo. Quel posto che senti tuo. Dove puoi rifugiarti, pensare, distruggere, gridare.
N.T.: In generale è la montagna stessa il posto che sento più mio e dove ricarico le energie, la mente, il corpo e lo spirito. Ci sono dei monti a cui sono legato in modo particolare per una serie di ricordi e legami affettivi vissuti nel passato o nel presente: l’alpe di Siusi e lo Sciliar, le montagne della Val Gardena e della Val Badia, la Val Fiorentina e il Civetta, per citare i primi che mi vengono in mente ora. Le Dolomiti in generale mi danno emozioni uniche rispetto ad altre montagne. Ricordo che quando in passato mi capitava di tornare dopo qualche mese sulle Dolomiti, pur essendo stato a lungo su altre montagne magnifiche, avevo un tuffo al cuore, la sensazione di essere tornato a casa. Mente e corpo. Ho da anni un altro luogo particolare dove vado se ho bisogno di pensare, riflettere e ritrovarmi: un santuario/monastero sopra l’abitato di Santa Brigida, in provincia di Firenze. Lo spirito e il pensiero lì rinascono sempre.

D.Z.: E per ultima cosa un sogno. Che meriti di essere chiamato tale.
N.T.: Essere capace, fino all’ultimo giorno passato su questa terra, di accorgermi della poesia e della bellezza che mi circonda. Di contemplare la natura e di stupirmi dentro gli occhi delle persone che incontro.

ALESSANDRO BAÙ
Daniela Zangrando: Il passo chiave.
Alessandro Baù: Aver dato le dimissioni quando facevo l’ingegnere, non esser più dipendente e aver cambiato stile di vita. 😉
D.Z.: Cosa vuol dire spostare il limite?
A.B.: Avere sempre la curiosità, la voglia di mettersi in gioco e di vivere nuove avventure. Penso che, prima di tutto, il limite sia un fattore mentale e strettamente personale.

D.Z.: I tuoi limiti, ora.
A.B.: Frequentare la montagna a 360° praticando arrampicata, alpinismo, freeride e scialpinismo è la cosa che più mi entusiasma di questo stile di vita ma, allo stesso tempo, la vivo come un limite. Non dedicandomi esclusivamente ad una di queste discipline è difficile spostare l’asticella sempre più in alto.

D.Z.: Se non dovessi più fare il climber, cosa faresti? Hai un piano altro, parallelo?
A.B.: A dire il vero non faccio esclusivamente il climber: quest’anno sono diventato guida alpina e continuo a fare qualche consulenza come ingegnere.

D.Z.: Cosa ti piacerebbe cambiare del mondo dell’arrampicata? Di questo che a tutti gli effetti penso sia il tuo lavoro?
A.B.: Mi piacerebbe che in Italia, come avviene in altri paesi, ci fossero maggior dialogo e collaborazione tra le organizzazioni che promuovono l’arrampicata (Guide Alpine, CAI, FASI) per divulgare ancor di più questo bellissimo sport.

D.Z.: Descrivimi il luogo. Quel posto che senti tuo. Dove puoi rifugiarti, pensare, distruggere, gridare.
A.B.: Ne ho due: il primo è un sasso in cima alla cresta di “Rocca”. Rocca Pendice è la falesia sui colli Euganei vicino casa. Quando devo pensare vado lì, un bel balcone sulla mia città (Padova ndr) e sulla pianura. L’altro è la parete Nord Ovest del Civetta, il contenitore di molti dei miei sogni.

D.Z.: E per ultima cosa un sogno. Che meriti di essere chiamato tale.
A.B.: Da quando ho iniziato a scalare, ho in mente la foto di Wolfgang Gullich in amaca durante l’apertura di Eternal Flame alla Nameless Tower nel gruppo delle Torri di Trango. Prima o poi su quella via ci voglio assolutamente andare…

diDaniela Zangrando

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Velino: una traversata con gli sci nel Giardino Barocco degli Appennini

Una traversata in sci dei monti del gruppo del Velino, un’esplorazione che regala silenzio e panorami unici di montagne ancora selvagge nell’Appennino Centrale. Di Alberto Sciamplicotti.

Un giardino barocco. Ecco a cosa somigliano maggiormente i monti del Gruppo del Velino. Varcare la soglia dei suoi fondovalle è come entrare in uno di quei giardini nati in Francia fra il cinquecento e il seicento. Quegli spazi costruiti sul principio di base delle teorie di Cartesio in cui “Lo spazio infinito può essere diviso in parti finite”. Un luogo in cui effetti scenici immaginifici e grandiosi riescono a stupire il visitatore con colpi di scena fantastici.

Il gruppo del Velino non è infatti un massiccio definito da una sola dorsale come ad esempio la Maiella. Si tratta piuttosto di un insieme di creste, valli, pendii, colli che s’intersecano, si uniscono si fondono uno nell’altro. Come entrando in un giardino barocco ostacoli sono posti a chiudere la vista per svelare poi improvvisamente una nuova meraviglia, la siepe del bosso tagliata a labirinto che conduce alla fontana zampillante che a sua volta è la porta per il sentiero che conduce a un casino di caccia, così valli si aprono su pareti e colli e ogni cresta conduce in un nuovo angolo dove lo sguardo può spaziare verso meraviglie sempre nuove.

E’ stata proprio questa voglia di ricercare lo stupore che ci ha condotto, durante tre giornate delle metà di febbraio, attraverso il giardino barocco del Velino. Perché nonostante il Gruppo del Velino abbia accessi facili, direttamente dall’autostrada che dalla capitale d’Italia conduce alle città dell’Aquila e di Pescara, al suo interno ancora si conservano ampie zone in cui il selvaggio è il compagno di viaggio che si trova al fianco chi decide di attraversare questo massiccio.

L’approccio è iniziato così dalla Valle dell’Asina: qui siamo passati vicino ad alcuni antichi ricoveri di pastori, piccole strutture in pietra che hanno svolto questa funzione fin dal medioevo, quando qui venivano a cercare rifugio quanti fuggivano dalla guerra che opponeva le armate di Corradino di Svevia a quelle di Carlo d’Angiò. Un uso ripreso anche durante la seconda guerra mondiale, nel momento in cui la Linea Gustav fu sfondata dall’avanzata degli eserciti delle truppe Alleate.

Più in alto, sotto i pendii del Monte Morrone, abbiamo lasciato i pesanti zaini nel piccolo bivacco di Fonte La Vena per proseguire leggeri, verso la cima. Una discesa su neve polverosa colore rosso sangue, riflesso del sole che stava scomparendo dietro una cresta, è stato il regalo inatteso prima delle ore che avremmo passato davanti alle fiamme del camino, presi nei tanti racconti che il clima dei bivacchi fra amici sempre richiama.

La mattina successiva, la neve si è aperta davanti alle spatole dei nostri sci scricchiolando. Il freddo della notte non aveva di certo accelerato la sua trasformazione e ora non bastava nemmeno il debole calore dei raggi di un sole lontano per distruggere quei cristalli di sogno. Una brezza fredda spirava però sulle cime intorno, sollevando nuvole di neve: un suggerimento a modificare il percorso che avevamo ipotizzato. Accantonata l’idea di scendere al Lago della Duchessa e risalire poi al Murolungo, abbiamo preferito scendere direttamente verso la valle del Campitello per poi salire lungo il vallone che conduce al Valico del Puzzillo guadagnando così i pendii che ci avrebbero portato al Rifugio Vincenzo Sebastiani. Al valico, Massimo non si è lasciato scappare l’occasione per scendere una ripida spina innevata. Così, ho provavo a sfruttare al meglio il momento scattando qualche foto delle sue curve saltate con lo sfondo della parete del Costone.

Per chi è abituato a pensare all’Italia come a una penisola circondata da mari e coronata solo in alto dalle montagne, potrebbe sembrare strano immaginare la difficoltà di entrare in un rifugio appenninico: anche qui, come sulle più blasonate Alpi, bisogna però spesso scavare gradini verso il basso per arrivare alla porta. Per fortuna, lo staff che gestisce il rifugio ha braccia forti e grandi capacità di gestione: così, oltre a trovare l’ingresso giù pulito, ad attenderci c’è anche una succulenta e abbondante cena e, la mattina successiva, una colazione altrettanto pantagruelica.

Evitiamo di superare direttamente il Colle dell’Orso: i suoi pendii sono troppo carichi di neve e i segni delle diverse slavine già scese non predispongono di certo l’animo alla tranquillità. Risaliamo invece il pendio che sovrasta il rifugio e nel farlo iniziamo a seguire le impronte di un lupo. Una traccia nella neve che ci accompagnerà per tutta la giornata. Sulla cima lo sguardo è libero di giocare con la ripida discesa che conduce fino in Val di Teve, di salire fino al Monte Sevice, di cercare la piramide perfetta del Velino, di esplorare ogni angolo di questo paesaggio.

Siamo soli sulla cresta. Cominciamo a seguirla in una lunga sequela di sali e scendi e dove perde quota maggiormente, scolliamo le pelli dagli sci per godere delle curve su questa stupenda neve invernale. Solchiamo così le dorsali delle Punte Trieste e Trento. Una lunga discesa su neve sempre polverosa ci porta fino al colle poco sotto la Tavola, saliamo sulla sua cima e poi ancora giù, fino ai ricoveri dei pastori di Valle Genzana. Ora rimane solo da risalire alla Cima dei Campetti della Magnola, attraversarli e infine, una volta raggiunto il comprensorio di Ovindoli, scendere per le piste battute.

Le impronte del lupo hanno sempre preceduto i nostri passi, come quelli di una guida esperta. E’ bastato seguire quei segni nella neve perché l’itinerario si dipanasse sotto i nostri sci. Ai Campetti delle Magnola le tracce della nostra guida sono sembrate però farsi incerte. Eppure è il tratto più facile, un tranquillo su e giù fra boschi radi e piani innevati. Qui, a pochi minuti dalla neve morta delle piste battute, il silenzio e i panorami che attraversiamo riescono a regalare l’emozione più grande: immensa perché colma della misura senza fine della poesia.

Un sentimento che riecheggia però di dolore. Questa potrebbe essere infatti una delle ultime volte che attraversiamo gli stupendi Campetti delle Magnolia così come ora li stiamo vedendo: sembrerebbe che la prossima estate avranno inizio i lavori per portare il carosello degli impianti di discesa fin in quest’ultimo tratto della nostra traversata. Forse è per questo che la traccia del lupo ha perso forza e direzione giungendo qui.

di Alberto Sciamplicotti

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Coffee Break Interview: Matteo Della Bordella / Tamara Lunger

L’alpinista lecchese Matteo Della Bordella e l’alpinista sudtirolese Tamara Lunger sono i protagonista della 14° puntata di Coffee Break Interview, il progetto settimanale curato da Daniela Zangrando per esplorare sogni, desideri e limiti dei protagonisti dell’arrampicata e dell’alpinismo.

MATTEO DELLA BORDELLA

Daniela Zangrando: Il passo chiave.
Matteo Della Bordella:
È dove la probabilità di fallire è più alta. Non è necessariamente un passaggio tecnicamente difficile, ma piuttosto un passaggio dall’esito incerto, dove ti devi mettere in gioco e non sai bene come andrà a finire. In arrampicata, in alpinismo e nella vita di tutti i giorni.

D.Z.: Cosa vuol dire spostare il limite?
M.D.B.:
Fare qualcosa di nuovo, di mai fatto prima. A livello personale raggiungere un traguardo che pensavo impossibile, a livello generale raggiungere un traguardo che nessuno poteva nemmeno immaginare o tutti ritenevano impossibile.

D.Z.: I tuoi limiti, ora.
M.D.B.:
Forse iniziare nuovi grandi progetti. Le idee non mi mancano, ma rispetto ad alcuni anni fa forse sono più consapevole dei rischi che ogni grande progetto comporta e meno propenso alle rinunce che implica. Non mi pongo limiti, però ci penso bene prima di tentare qualcosa di questo tipo perché so che poi quando sono in ballo prima di tirarmi indietro voglio giocarmi tutte le carte.

D.Z.: Se non dovessi più fare il climber, cosa faresti? Hai un piano altro, parallelo?
M.D.B.:
Nessun piano parallelo. Fino a qualche anno fa lo avevo, lavoravo come ricercatore in università, ma poi ho deciso di mollare quella strada. Preferisco vivere la realtà e vedere dove la vita mi porta e dove posso arrivare.

D.Z.: Cosa ti piacerebbe cambiare del mondo dell’arrampicata? Di questo che a tutti gli effetti penso sia il tuo lavoro?
M.D.B.:
Più onestà nel raccontare e nel comunicare, meno autocelebrazione.

D.Z.: Descrivimi il luogo. Quel posto che senti tuo. Dove puoi rifugiarti, pensare, distruggere, gridare.
M.D.B.:
Forse qualsiasi campo base, ma sicuramente la Patagonia. Anche i momenti in cui il tempo è brutto per scalare, indipendentemente che mi trovi a El Chalten, in una truna o in qualsiasi altro campo base, non li ho mai vissuti come l’esasperante attesa che molti alpinisti descrivono. Per me sono luoghi in cui posso rifugiarmi, pensare ed eventualmente gridare. Distruggere per fortuna no.

D.Z.: E per ultima cosa un sogno. Che meriti di essere chiamato tale.
M.D.B.:
Continuare ad avere sogni da inseguire, sempre diversi tra di loro, rinnovarsi ogni volta e crescere, stare bene ed essere pronto ad accogliere quello che la vita può offrirmi.

TAMARA LUNGER

Daniela Zangrando: Il passo chiave.
Tamara Lunger:
Il passo chiave. Non si sa. La cosa più difficile, che mi fa paura ad esempio in questa spedizione*, è lo star bene insieme. Siamo in sette, ognuno di noi ha un carattere indipendente ed è difficile trovare un equilibrio in questo. La fatica la vogliamo fare tutti, certo, ma se qualcosa non funziona tra le persone, diventa tutto pesante.

D.Z.: Cosa vuol dire spostare il limite?
T.L.:
Vuol dire andare in una direzione inesplorata. Questa cosa che vorrei fare adesso è la più dura che ho provato finora. Tutto è un po’ sconosciuto: non so come il corpo reagirà a questi chilometri, a questi metri verticali, … è un viaggio verso un polo nuovo di me stessa.

D.Z.: I tuoi limiti, ora.
T.L.:
Non so proprio rispondere. I limiti dipendono sempre da quanto sei innamorato di una cosa. Per esempio, pochi giorni fa, quando ho pensato che dovevo partire per questa spedizione, mi sono venute le farfalle allo stomaco. Per me è il segno inequivocabile che la scelta di voler provare è quella giusta. Poi il resto si vedrà. Siccome amo sia fare fatica che le montagne, secondo me non c’è niente di insuperabile… faccio fatica a descrivere la sensazione da tanto è profonda.

D.Z.: Se non dovessi più fare il climber, cosa faresti? Hai un piano altro, parallelo?
T.L.:
Se non potessi più farlo, forse mi sposterei verso il volo. Ma non voglio pensarci adesso. È inutile. Intanto vivo questa esperienza a pieno. Quando non potrò più continuare, ci penserò.

D.Z.: Cosa ti piacerebbe cambiare del mondo dell’arrampicata? Di questo che a tutti gli effetti penso sia il tuo lavoro?
T.L.:
A me basta che ognuno sia onesto con se stesso e non solo attento a rientrare negli schemi che altri hanno preparato per lui. Non è necessario corrispondere esattamente all’immagine che qualcun altro ha di noi! La montagna è espressione di vita. Attraverso il suo tramite posso esplorare me stessa, e per me questa lettura interiore è qualcosa di prezioso. Spero che chiunque si possa sentire libero di fare quello sente, anche se magari va un po’ contro gli ideali comuni.
Ognuno dovrebbe avere la possibilità di esplorarsi in montagna, e vivere questa investigazione come una cosa solo per se stesso, non per dimostrare qualcosa a chi ha attorno.

D.Z.: Descrivimi il luogo. Quel posto che senti tuo. Dove puoi rifugiarti, pensare, distruggere, gridare.
T.L.:
Il posto in cui finora mi sono sentita così è stato il Campo 3 del Nanga Parbat. Quando ho guardato fuori e ho visto il panorama, ho capito che eravamo davvero solo noi quattro su questa montagna grandissima. Mi ha dato un senso di pienezza che non avevo mai sentito prima. Era così bello che ho detto: «Adesso non mi manca niente. Potrei anche morire perché mi sento completa, felice, arrivata.»

D.Z.: E per ultima cosa un sogno. Che meriti di essere chiamato tale.
T.L.:
Non è una cima o qualcosa di simile. È diventare la persona che voglio essere, perché è una meta che non ho ancora raggiunto. Si tratta di un percorso che voglio fare, non sapendo cosa mi aspetta, che cime voglio ancora scalare. Certamente ho qualche idea, ma poi i sogni diventano sempre di più, e magari uno va a segno, e uno non va. Inseguirli è davvero solo un viaggio per capire a fondo me stessa e diventare quella che voglio.

Daniela Zangrando

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* Si riferisce alla spedizione Der Lange Weg. Un team di alpinisti che vede, oltre a lei, Núria Picas, Janelle Smiley, Mark Smiley, David Wallmann, Philipp Reiter e Bernhard Hug ha intrapreso il 17 marzo scorso la storica traversata delle Alpi compiuta nel 1971 da Robert Kittl, Klaus Hoi, Hansjörg Farbmacher e Hans Mariacher, con l’obiettivo di percorrere i 1.917 chilometri e i più di 85.000 metri di dislivello in un tempo inferiore a 41 giorni.

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Changabang Nord, il video della salita di Billon, Moatti e Ratel

Un primo video della salita della parete nord del Changabang (6864 m), effettuata dall’ 11 al 13 maggio 2018 in stile alpino dagli alpinisti francesi Léo Billon, Sébastien Moatti e Sébastien Ratel.

Dopo la notizia di venerdì spunta puntualmente anche un breve video della ripetizione della spettacolare parete nord del Changabang, salita in stile alpino dall’ 11 al 13 maggio 2018 dagli alpinisti francesi Léo Billon, Sébastien Moatti e Sébastien Ratel appartenenti al gruppo Militare di Alta Montagna (GMHM). Ricordiamo che i tre hanno seguito una combinazione di due vie, la prima tentata nel 1996 e la seconda portata a termine nel 1997 dagli inglesi Andy Cave e Brendan Murphy sulla splendida “Montagna di Luce” nel Garhwal nell’Himalaya Indiano.

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Shawn Raboutou libera Off the Wagon Low, primo 8C+ boulder in Svizzera

Il climber statunitense Shawn Raboutou ha liberato Off the Wagon Low in Valle Bavona. Gradato 8C+, questo è attualmente il boulder più difficile della Svizzera.

In Svizzera il giovane climber statunitense Shawn Raboutou è riuscito nella tanto attesa prima salita della partenza bassa di Off the Wagon. Situato in Valle Bavona, il boulder Off the Wagon era stato liberato da Nalle Hukkataival nel 2012 ed è conosciuto come uno dei più famosi blocchi estremi, in parte grazie alla purezza della linea ed in parte per il fatto che un decennio fa i tentativi di Dave Graham e Chris Sharma sono stati documentati nei cult film di arrampicata Dosage 3 e 4.

Dopo la prima libera Hukkataival aveva descritto così questo boulder: “Fondamentalmente il blocco si distilla in una sequenza di 2 movimenti molto duri seguiti da un’uscita più facile ma davvero bella.” Pochi ovviamente sono riusciti a ripetere questo esplosivo test da 8B+, come il tedesco Jan Hojer, lo statunitense Jimmy Webb, e gli italiani Niccolò Ceria e Luca Rinaldi.

Come suggerisce il nome stesso, Off the Wagon parte – per certi versi un po’ contorto – non da terra ma dal carro che il contadino, proprietario dell’area, parcheggia sempre sotto il masso. Shawn Raboutou ha ora salito il blocco partendo ccovacciato sul carretto, aggiungendo così un movimento in partenza molto difficile che per più di un decennio ha eluso i top climber.

L’asso svizzero Giuliano Cameroni ha testimoniato la libera e ci ha spiegato "Il primo movimento è super potente e simile in difficoltà al movimento successivo." E’ così difficile, infatti, che il blocco potrebbe ora essere 8C+, il che significa che è il boulder più difficile della Svizzera e uno dei più difficili al mondo. Ricordiamo che attualmente la scala boulder vanta un 9A, Burden of Dreams liberato da Nalle Hukkataival in Finlandia nel 2016, ed una manciata di 8C+ tra cui citiamo Gioia (Christian Core, Varazze, 2008), Terranova (Adam Ondra, Moravsky Kras, 2011) e La Révolutionnaire Extension (Charles Albert, Fontainebleau, 2017).

Originario di Boulder, Colorado, il 20enne Shawn Raboutou non è nuovo ad exploit di questo genere e vanta una “pedigree” eccezionale: è figlio dei fortissimi climbers Robyn Erbesfield e Didier Raboutou. Mentre Didier era uno dei protagonisti negli anni 80′ della nascita dell’arrampicata sportiva, Robyn era campionessa del Mondo nel 1995 e aveva vinto la Coppa del Mondo nel 1992, 1993, 1994 e 1995 nonché del Rock Master nel 1994.

Qui nel video di Giuliano Cameroni un tentativo di Shawn Raboutou

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The try before ,, crazy stuff happened today, first 8C+ for Swiss, iconic boulder FA @shawnraboutou

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Off the Wagon (8c+/v16) . . full video soon (music was playing in background) . I want to mention that there are access issues. You can not try this game from April through October due to the land owner wanting to conserve the grass for his animals. Please be respectful and discreet because it's private land. @lasportivana @organicclimbing @frictionlabs . 11/27/18 (First Ascent from the low-start)

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Sulla paura, l’arrampicata e la depressione

Pubblichiamo per gentile concessione di Climbing Zine l’articolo nel quale Sonya Pevzner riflette sulla sua arrampicata, sulle sue paure e sulla sua depressione. Traduzione di Agnese Blasetti.

Con i piedi ben piantati sulla cengia di sosta, a metà della parete del monte Shuksan, faccio quello che sembra il primo respiro vero da quando ho lasciato il campo base sul ghiacciaio Sulphide, otto ore prima. Intorno a me, le altre ragazze si sistemano sulla roccia ripida, facendomi spazio per accovacciarmi con la schiena premuta contro la parete. Manca ancora un tiro per arrivare a terra e mi assale un sollievo nervoso, la calata è stata snervante. Ho scalato all’aperto poche altre volte, quindi salire su per i 2780 metri dello Shuskan è stata una bella prova, se così si può dire. Faccio un sorrisetto. Ero troppo impegnata a concentrarmi sui tratti duri della via per fare attenzione al cuore carico di adrenalina. Arrampicare mi spaventa a morte, ma è un bene. Essere spaventata significa essere viva. Significa che non voglio morire. Ma non è sempre stato così.

C’è stato un tempo, qualche anno fa al nord dello stato di New York, in cui fantasticavo su come mettere fine alla mia vita quasi ogni giorno. Una depressione grave mi ha perseguitata per anni, da quando ero adolescente. Un meccanismo di conservazione, mi ero convinta, che sarebbe scomparso quando sarei cresciuta. Ma non è successo.

Per alcune persone, un’infanzia difficile può portare alla depressione, al disprezzo per se stessi, all’autodistruzione. Per altri è un evento sconvolgente o il servizio militare e la sindrome da stress post-traumatico, il problema di reinserirsi nella società. Un divorzio, una morte, un tradimento, un fallimento, sopravvivere alla guerra civile… tutti questi mi sembravano motivi a cui la gente reagisce con la depressione e i pensieri suicidi. Comunque, a me non è successo di dover affrontare nessuna di queste cose; non ho mai nemmeno avuto nessuno di quei comportamenti autodistruttivi così in voga nei film hollywoodiani sulla redenzione—niente alcol, niente droghe, niente autolesionismo. Non voglio idealizzare o romanzare nessuna di queste cose. Ma in queste situazioni c’è sempre un “cattivo”. A me sembrava che le persone con dei problemi seri avessero le loro buone ragioni per essere depresse.

Io queste ragioni non ce le avevo. Semplicemente non ero molto sicura di voler vivere. Oltre all’isolamento dato dalla depressione, ancora peggio era l’imbarazzo di dover combattere contro qualcosa senza conoscere bene il perché.

Quando ho compiuto vent’anni, lo stress di un lavoro faticoso al ristorante, combinato con un futuro incerto, scatenarono in me un’ansia intensa. Unita alle mie insicurezze, la realtà di un disagio mentale che non spariva, e la profonda vergogna di non essermi mai sentita all’altezza di nulla, la mia depressione finì fuori controllo. Mi sentivo inadatta—anche per essere depressa. Di notte, mentre distrutta ed esausta per il lavoro guidavo verso casa, mi perdevo in lunghe, elaborate fantasie: schiantare la macchina contro gli alberi di una stretta strada di campagna; finire giù da un ponte nell’acqua ghiacciata, dovrei sarei rimasta intrappolata nel veicolo; scivolare su un sentiero e rotolare giù dal fianco della montagna.

La mia fascinazione per gli incidenti rocamboleschi era cominciato da piccola. Quando ero ancora neonata, il mio adorato padre era stato ucciso in un violento incidente che aveva reclamato due vite.

Una fiamma viva, che si era estinta troppo presto. Intorno ai vent’anni, mio padre era stato un alpinista esperto, e un rispettato conoscitore delle montagne. Io non ero cresciuta scalando montagne, ma le avevo sempre amate nell’amore che mi aveva legato a lui.

Sebbene la mia famiglia stravedesse per me, il mio mondo fin dall’inizio mi sembrava una foto con un soggetto mancante. Da bambina, mi agitavo se gli adulti guidavano con quello che io percepivo come un comportamento rischioso. Da adolescente, guidare con i miei amici mi faceva venire l’ansia. E quando la mia depressione divenne insostenibile, la fascinazione che provavo per la vita di mio padre divenne fascinazione per la sua morte. Mi convinsi che sarei morta giovane, probabilmente in un incidente, com’era successo a lui.

Ma quello era molto diverso da questo. Questo era l’inizio dell’agosto del 2017 alle North Cascades. Avevo deciso di salire in cima al monte Shuskan nell’ottobre del 2016. Mentre la mia depressione si intensificava, così lo faceva anche il bisogno di una conclusione—avrei messo fine alla mia ossessione per le macchine e la morte e sarei andata alla ricerca di quell’unica altra cosa che definiva l’idea che avevo di mio padre: le montagne. Per rifiorire dalla depressione, e non solo sopravvivere ad essa, mi sarei messa a scalare.

Avevo dieci mesi per prepararmi. Mi iscrissi in una palestra indoor di arrampicata e iniziai ad imparare. Non avevo avuto grossi problemi a salire le prime vie, ma in cima rimanevo senza fiato e tremante per la paura, aggrappata alle ultime prese di plastica temendo per la mia vita. Non andò meglio con le vie successive. Vedere ragazzini di dieci anni arrivare su allegramente non mi rendeva le cose più facili. Scoprii che imparare ad arrampicare a Boulder era davvero un problema per l’autostima. Iniziai a notare un certo schema—finché rimanevo vicina a terra tanto da sopravvivere ad una caduta, riuscivo a respirare. Ma era come se ci fosse una linea magica sul muro, dove secondo la mia percezione l’altezza diventava fatale—quello mi paralizzava. Temevo il momento in cui avrei superato quella linea, quando realizzavo che cadere da quell’altezza senza una corda sarebbe stato mortale. Lo temevo, perché mi faceva desiderare, in un modo disperato e viscerale, di non morire. E non voler morire mi costringeva a decidere di vivere. Mi sembrava di fregare la mia depressione così.

Era l’agosto dell’estate successiva quando ho scalato lo Shuksan, gli incendi intensi della British Columbia avevano avvolto lo stato di Washington e l’Oregon in una fitta nebbia fumosa. Durante il tragitto verso nord, da Seattle a Sedro-Woolley dove avremmo incontrato il resto del gruppo e le guide, il paesaggio mi fece ripensare a delle foto che avevo visto delle campagne cinesi—terreni coltivati collinosi immersi nella foschia. Il fumo degli incendi nascondeva ogni accenno dei monti che mi avevano detto essere lì, ricoprendo ostinato ogni cosa. Una volta sulla montagna, ci siamo accampati alla base del ghiacciaio Sulphide, e con la visibilità ridotta a non più di 700 metri, eravamo ignari del mondo. Era una sensazione di isolamento e allo stesso tempo confortevole. Quando ho guardato lungo la valle, la luce si rifletteva e si amalgamava con il fumo, dando all’aria un alone che si adattava al mio stato d’animo—rosa pallido e giallo la mattina, arancio soffocante e rovente a metà giornata, rosso caldo alla sera e blu ghiaccio la notte. La luna, quelle sere che si riusciva a vedere, brillava pallida come un lampione in una serata umida. Non siamo riusciti a vedere le montagne se non il terzo giorno, quando il fumo si è spostato leggermente per rivelare timido una cresta frastagliata con picchi di tremila metri.

Quando scalo una montagna non è per conquistarla—ma per rendermi conto che mi è stata data la possibilità di impegnarmi in qualcosa di difficile e di tornare a casa. La depressione è così per me. Decidendo di fare il viaggio al monte Shuksan, speravo davvero di avere un’epifania. C’era una sorta di fede infantile nell potere ristoratore delle montagne e del legame che avrei sentito con mio padre mentre arrampicavo. Proprio come da adolescente, speravo di ritornare guarita.

Ovviamente, non è andata così. Ho forgiato legami incredibili e passato tempo con una cara amica. Ho scoperto di essere in grado di fare la cacca in una busta di plastica e che la neve sciolta ha un sapore buonissimo. Ho scoperto che il caffè mi rende nervosa a 2500mt esattamente come a 1500. A dire il vero, alcuni aspetti sono noiosi. Camminare con uno zaino di 22 kg per la prima volta non è stato divertente. La vista dalla cima sarebbe dovuta essere meravigliosa, ma invece era tutto ricoperto dal fumo. Ho mandato un messaggio ai miei cari per dir loro della vetta raggiunta con successo. Era comunque stupefacente.

In altre parole, scalare una montagna non è diverso dalla vita di tutti i giorni—alti e bassi, e si finisce con l’aver fatto qualcosa. E anche se la tentazione di continuare con le analogie e i parallelismi tra arrampicata e depressione è forte, alla fine si riduce a questo—nessuna rivelazione. Solo una camminata estenuante nella neve e il respiro corto durante le calate.
Click Here: highlanders rugby gear world Sinceramente, le North Cascade Mountains mi hanno spaventata a morte. Seduta su quella cengia sulla parete del monte Shuksan, ho guardato i monoliti fumosi delle montagne e mi sono ricordata di come ho accarezzato da vicino l’idea della morte durante la mia depressione degli ultimi anni. Qualcuno accanto a me ha fatto un sospiro di gratitudine per la vista di fronte a noi. Qualcun altro ha detto qualcosa sulla bellezza delle montagne, e la grazia. Io non ho detto nulla, ricordando la doppia, il vuoto dell’aria dietro di me, sotto di me, tutt’intorno a me, mentre aggrappata alla corda pregavo che i nodi reggessero. C’erano almeno altri 15 metri prima della prossima cengia. Cadere avrebbe significato percepire quel vuoto per ogni millimetro fino alla fine. Cadere avrebbe significato la morte, quella vera, spaventosa—di quel genere dove il tuo corpo si spiaccica sulle rocce e le pozze del tuo sangue conservano il riflesso delle montagne che ti hanno appena ucciso. O almeno così me lo immaginavo io. Proprio come in cima ai muri di arrampicata in palestra, i primi momenti di ogni calata mi mandavano una scarica di adrenalina. La mia vita era letteralmente appesa a un filo. Non volevo cadere, proprio no.

Su quella penultima cengia, mi sono accorta che la morte, lì in parete, era diventata una cosa molto personale Nei primi anni non era stato così. In passato, quando guidavo per quei quarantacinque minuti che mi separavano da casa ogni sera dopo il lavoro, al buio, sola, immaginavo casualmente dieci modi in cui sarei potuta morire. Ero cinica, fredda. Dissociata. una fissa morbosa sul morire come era morto mio padre. Mi immaginavo i titoli sui giornali il giorno seguente: una Subaru del 2007, rossa, trovata schiantata lungo la Route 245. Sembra che il guidatore abbia perso il controllo dell’auto e sia finito contro un albero. Morti: una. Non immaginavo il momento dell’impatto della macchina contro l’albero, e nemmeno i pochi istanti prima di perdere il controllo, la macchina che sbanda, tutto che diventa nero. Ripensandoci ora, mi sono resa conto che l’ho sempre vissuto dall’esterno, come se ci fosse qualcun altro a influenzare la mia grottesca immaginazione.

Di contro, fare il primo passo dalla sosta di calata mi sembra estremamente personale. Il mio peso che tende la corda sopra di me. I nodi, quelli che ho imparato da poco a fare e di cui fidarmi, che tengono l’imbrago legato alle corde. La mia schiena, esposta all’aria fredda del mattino. Quel primo secondo in cui la corda si mette in tensione sembra una conversazione intima con la morte molto più intima delle tante che avevo avuto guidando la macchina. Non ti puoi nascondere dalla paura quando trascina il tuo corpo verso le rocce sottostanti.

Sulla cengia, siamo tutte un po’ intontite, di quel genere di stanchezza che segue la classica sveglia alpinistica delle tre di mattina. Di fronte a noi, il ghiacciaio si srotola sul lato della montagna e raggiunge il lago, ancora ricoperto da un velo di fumo. Alla nostra destra, il monte Baker controlla tutto dall’alto dei suoi 3.286 metri, chiaramente indifferente al mio goffo giocherellare con la vita. So solo questo: non voglio morire su questa montagna, o quella montagna, o su nessun altra stramaledetta montagna.

A volte, il pensiero che mio padre avrebbe rinunciato a così tanto per vivere la sua vita con me mi fa vergognare di aver pensato al suicidio—ma è anche quello che mi tiene viva. Non sono credente, ma penso che qualcuno mi abbia protetta dalle macchine in questi ultimi venticinque anni. Tante volte avrei potuto distruggere la macchina, sarei potuta morire, o farmi male—e in qualche modo, non sono mai stata coinvolta in un incidente, nemmeno uno stupido.

A volte, credo che il dono più grande di mio padre sia stato la sua morte, per tenere viva me.

Qualcuno vicino a me esprime la sua gratitudine per aver raggiunto sani e salvi la cima e per una discesa quasi completa. Anche io sono grata, e lo dico. Non mi sono sentita spesso così. Penso a mio padre e a come sarebbe stato fiero di quella mia salita. Mi sono avventurata tra le montagne a caccia di una connessione con lui, ma qui non l’ho trovato. Forse è proprio questo il punto—non ci sono risposte facili alle tragedie e alla depressione.

Vorrei dirvi che sono guarita, che la depressione non infetta più i miei pensieri. Ma non è vero. Continuerò a scalare, nonostante la paura e la mancanza di risposte chiare. Anzi, e diciamolo—continuerò a scalare per la paura. Continuerò a inseguire le montagne perché non so bene cos’altro fare. A volte, le storie non hanno una fine precisa. A volte, si va a scalare, e poi si torna a casa sani e salvi. E a me, ora, questo sembra abbastanza.

diSonya Pevzner
traduzione di Agnese Blasetti

L’articolo originale è stato pubblicato da The Climbing Zine Online il 29 marzo 2018:On Fear, Climbing, and Depression by Sonya Pevzner

Lumignano tra sport e natura: una serata per l’arrampicata nei Colli Berici

Martedì 26 marzo a Vicenza una serata di informazione e di scambio tra naturalisti e frequentatori della storica falesia di arrampicata di Lumignano nei Colli Berici.

E’ giunto il momento di fare un po’ di chiarezza cosa comporti scalare (pedalare, camminare..) all’interno di un ‘area SIC (Sito interesse Comunitario), come sono i Colli Berici. Innanzitutto, la possibilità di passare del tempo in un luogo meraviglioso dal punto di vista ambientale. Non tutti i frequentatori sono pienamente consapevoli di scalare su un’antica barriera corallina che ha iniziato a formarsi 30 milioni di anni fa: si tratta di un patrimonio geologico unico, che richiede quindi un’attenzione particolare. Ultimamente la comunità degli arrampicatori a Lumignano è stata impegnata in lunghissime (e un po’ sterili) discussioni di etica (quanto chiodare, come chiodare, come interpretare un passaggio, ecc cc) dimenticando ogni riferimento alla tutela ambientale, che dovrebbe in realtà essere prioritaria.

Pertanto, anche in seguito allo scempio ambientale operato la primavera scorsa in località Grotta della Guerra, le Associazioni che sono coinvolte nella gestione della falesia insieme a diversi gruppi ambientalisti , hanno deciso di tenere una serata informativa Martedì 26 marzo, alle ore 21, presso il Patronato Leone XIII a Vicenza.

Lumignano tra sport e natura vuole essere una serata di informazione e di scambio tra naturalisti e frequentatori della falesia. Perché l’incontro abbia un senso è importantissima la presenza di chi ama Lumignano, che non è solo un pannello all’aria aperta alle porte di casa, ma un piccolo gioiello di cui tutti dobbiamo essere responsabili.

di Paola Lugo

Info: Facebook ASD Ai Lumi

SCHEDA: Lumignano Classica

SCHEDA: Lumignano Monte Brojon

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Tough season for the Turkish opposition

Turkey’s political landscape is likely to have an increased level of uncertainty. Despite the unprecedented power Recep Tayyip Erdoğan has vested in himself through an a la Turca Presidential system,hisdomination over society and state structure seems to be wearing out as he fails to deliver on his promises. The injusticesintroduced into the system create frustration among certain groups in Erdoğan’s Justice and Development Party (AKP)and facilitate coalition formation among opposition parties. Two separate party formations by his old comradesindicate that Erdoğan exercises less control over his party. It is timely to ask whether the main opposition Republican People’s Party (CHP),can seize this moment of opportunity.

It takes a potent leadership, convincing programme and experienced cadre to stand up to a charismatic leader like Erdoğan. Obviously, this oldest party of Turkish Republic has to change to do so, yet, it is known for remaining in the comfort of its ideological cocoon and giving a deaf ear to such challenges. And the problem is that its ideology has a limited appeal.

Success: only through change

Yet, ideologies and party programmes are not carved in stone, not even the CHP’s. Recently, the leadership of the party indicated that they have recognized the need for changeand nominated a not-quite-left mayor for Istanbul, Ekrem Imamoğlu, who won twice against Erdoğan’s not-quite-charismatic nominee, Binali Yıldırım. Indeed, Imamoğlu raced against Erdoğan indirectly, because Yıldırım was nowhere to be found in the election process while it was Erdoğan who ran the campaign himself. In Turkish socio-politics, Istanbul is regarded as a microcosm of the country and it is popularly believed that whoever wins in Istanbul at local elections will also win in the general electionsand rule the country. Such, after all, is the story of Recep Tayyip Erdoğan.

Virgin territory for the CHP

Whoever leads the opposition coalition in Turkey will have to take advantage of three major opportunity spaces and pass the tests that they present. CHP, as the main opposition and the party of Ekrem İmamoğlu, is the most logical candidate for the job, at least for the time being.

The first test is about embracing the centre-right electorateand offering its elite a fair living spacewithout losing its left leaning secular voter base. This will require a fine-tuned and flexible discourse and programme that will necessarily make the charismatic leader a pragmatist. It is leaders who win elections in Turkey, not the ideologies directly, therefore the persona of the leader should step forward soon. If the CHP wants to utilize the momentum that the opposition gained in the local elections, it is almost imperative that the candidate will be İmamoğlu. The CHP leadership should keep in mind that despite recent frustration with Islamic/conservative politics in Turkey, the conservative, Sunni Islamic groups have already obtained much better access to state resources and bureaucratic positions. They also control a significant capital and market sharein many fields. They should be assured that CHP will not follow vindictive policies with regard these groups and will offer them a fair playground. Otherwise these groups will easily turn against the CHP even when it is the party in power and uniting their power in media and business with that of the bureaucracy, they could form an opposition alliance which will make things more difficult for the CHP. If the CHP fails to appeal to these socially and economically influential groups, it is likely that they will stick to AKP or any offshoot coming out of it.

Ekrem Imamoğlu has proved to be a good candidate for this inclusive embrace at local level in Istanbul. He has employed a reconciliatory political language between established secular CHP voters and the conservative-Islamists who are not happy with the AKP. This is how he won against the media empire and state resources that Erdoğan utilized. Yet, any analysis of his prospective nomination should also acknowledge separately the possible frustration of CHP’s secular, progressive and Alawite (non-Sunni) voter. If İmamoğlu fails to persuade CHP’s leftist voters to support his opening to the right in terms of both pragmatics and principles, he will most likely fail. For now, it is too early to claim that CHP has constructed a long-term strategy based on such a recognition. Furthermore, İmamoğlu will need a strong programme and cadre alongside a reconciliatory discourse. Again, for now, it is too early to claim that he has a state-level capacity for this kind of leadership.

Economy and law: double helix of survival

The economy is still the weakest link in AKP’s chainthat ties the AKP to power. Both the business circles and the laymen are demanding economic reforms, however, any sign of that remains to be seen. Any prospect of reform has to couple with transparency on state resources and restoration of rule of law, both of which are fundamentally inconsistentwith the current regime.

Therefore, even if CHP succeeds in emerging from its self-entrenched siege to win the elections, it will have to deal with economic wreckageand judicial ruin. So far, CHP has not offered anything convincing to the audience rather than meek criticism of AKP’s policies. Speaking of criticism, it also has to give up an essentially oppositional discourse, choosing a political language that really nominates itself for government. Perhaps, CHP has never been this close to power for decades. Yet, it lacks an elite team of economists that would take the country out of the slow-motion economic crisis that it has been going through for the last few years. Without such a team, election victory will be on a knife’s edge even if everything else is in place. To be persuasive, the CHP will also have to create conventional media outlets, minimally television channels, if it wants to reach out to a certain age group, i.e., the retired people who largely get their news from television.

How about the “opposition alliance”?

The coalition formed against Erdoğan for the local electionsin early 2019 included two other parties difficult to keep together for long. While Imamoglu and his CHP was primus inter pares, they cooperated with İyi Party, an explicitly Turkish nationalist party and the pro-Kurdish leftist Peoples’ Democracy Party (HDP). Since it was strategically vital for all three parties of the coalition, they buried the irreconcilable disagreements among them and moved along with a marriage of convenience. Yet, those issues will be much more determining in the general elections, since subject to contested policies at national level. Reconciling the ethnically driven HDP’s demands on Kurdish issue will not be easy with the priorities of a Turkish nationalist party led by a hawkish Meral Akşener.

The challenge is that Imamoglu, if he wants to be the next leader of the country, has to go far beyond the local election coalitionof early 2019, and look for a new kind of social contract which apart from economic solutions and the rule of law, would include proposals on burning issues such as accountability and transparency, discrimination, polarization and international isolation.

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Indigenous languages hold the key to understanding who we really are

Languages are one of the greatest emblems of human diversity, revealing just how astonishingly differently it’s possible for human beings to perceive, relate to, and make sense of the world. They are also the finest libraries in existence, in which we find the collective history, knowledge, mythology, and perceptions of an entire people. But this diversity is being lost at an alarming rate. Some experts would go as far as saying that 90% of the world’s languages are at risk of disappearing.

But why does the loss of indigenous languages matter? Read on to find out why Indigenous languages are fundamental to understanding the world we live in, who we really are and what humans are capable of…

Languages die because people stop speaking them: due to social pressures, demographic change and external forces. Colonisation, and the globalised capitalism it subsequently spawned, has perhaps been the greatest murderer of languages in human history, and this legacy is alive and well in the present. Survival International is campaigning against Factory Schools, which actively contribute to language death by teaching tribal children not in their mother tongue, but only in the dominant dialect or the official language of the state. This systematic cultural erasure threatens the lives of millions of children, their families, indigenous communities, and the survival of languages around the globe. Our campaign against Factory Schooling will launch later this year; sign up to our mailing list for updates.

There are around 7000 languages spoken on Earth, but 23 languages are spoken by around half of the world’s population. On the other hand, nearly 3000 languages are considered endangered, meaning that almost half of the planet’s current linguistic diversity is under threat.

The most linguistically diverse place on Earth is the island of New Guinea, which is split into the independent state of Papua New Guinea, and West Papua, which is under Indonesian occupation. In an area of 786,000 km², approximately 1000 languages are spoken. Compare this to Europe, where around 100 languages are spoken in an area of over ten million km².

There is a strong correlation between linguistic diversity and biodiversity; where there are most species of plants and animal, there are most languages spoken. Languages are closely connected to the environment they are spoken in, so in such areas they contain rich, detailed and technical knowledge about the flora, fauna, and habitat of that area.

When a new species is “discovered” by scientists, you can bet your bottom dollar that the tribal people living in that area would already have had a name for that species and be highly knowledgeable about it. These languages are ecological encyclopedias, and, as they are for the most part unwritten, if they are no longer spoken, then this wisdom and understanding is lost to humanity forever. Biological diversity and linguistic diversity go hand in hand; if one is threatened, then so is the other.

Around half of all the world’s languages have no written form, but this certainly does not mean they are lacking in culture.

Unwritten languages are rich in oral traditions; stories, songs, poetry, and ritual passed down through the generations that remain remarkably consistent and reliable through time. Scientists are finding more and more evidence for events that happened thousands of years ago which have been documented and preserved in indigenous storytelling, re-told and impressively preserved over hundreds of generations.

No human being on Earth speaks a “primitive” language; there is simply no such thing. All languages have intricate and unique rules of sound, words and grammar that all the speakers of that language know and understand intuitively.

In fact, Indigenous languages generally tend to be the most complex, specialised and idiosyncratic, especially those spoken in remote areas by only a few hundred people. Big global languages like English, Spanish or Mandarin Chinese are relatively simpler and on the whole follow more predictable patterns. Because of this uniqueness, the languages which are most at risk are arguably those that have the most to teach us about the incredible breadth and variety of human perception and experience.

Some indigenous languages demonstrate that human speech is not limited to the spoken word. Most famous are perhaps the African drum languages, allowing messages to move between communities at 100 miles an hour.

There are also around 70 indigenous languages that can be whistled. This isn’t like whistling the tune of a song, it means actually whistling in words and sentences with the flexibility of normal speech. This allows people to communicate efficiently across mountainous terrain, at sea, or in dense forest. It’s great for hunting because it sounds like birdsong, so doesn’t tend to scare off prey.

The language you speak shapes how you relate to the world, but it does not limit what you are able to think and understand. While we would order a sequence of events or images from left to right, start at the left, end on the right, speakers of an indigenous Australian language order events from east to west, like the course of the sun through the day. That means that the order in which they would put, say, a sequence of pictures showing a person aging, would change depending on the position they were facing.

Most of us lack this ability to instinctively sense east and west, so we would be unable to put pictures in the ‘correct’ order according to speakers of that language. However, just because we see the world differently, doesn’t mean we don’t understand their logic.

Whatever language you speak, people are people. Words like ‘mama’ and ‘dada’ are remarkably similar in almost every language, including variants like ‘tata’, ‘papa’ and ‘nana’. Is this evidence of some kind of deep historical relationship between all languages?

No. What it actually shows is that all babies’ mouths are made the same. Sounds like ‘ma’, ‘pa’, ‘da’, ‘ta’, and ‘ga’ are the easiest to make, so babies learn those first. All doting parents assume their child must be addressing them personally, so ‘mama’ and ‘dada’ become part of the vocabulary.

Language shows us that human beings are all fundamentally alike, yet at the same time, diverse, innovative and unique in fascinating ways. It not only reveals the dazzling variety of human culture and experience, but also gives unique insight into what it means to be human, and the limits and possibilities of our minds.

Things we might assume to be universal to all humans, that the past is behind us and the future ahead of us, that what follows 1 is 2, that blue and green are different colors, turn out not to be the case for everyone; other languages do it differently. There is even evidence that the language you speak actually changes the structure of your brain.

Already, it is estimated that 97% of human languages that have existed through our history are now extinct. This represents a phenomenal gap in our knowledge and understanding of ourselves as human beings. When even a single language dies, a vital piece of the human puzzle is forever lost.

The fundamental cause of language death is when children no longer speak the language of their parents. This can happen for a number of reasons, but one key factor is when children are made to feel ashamed of speaking the language of their family. Survival is campaigning to stop the “reprogramming” of indigenous children in Factory Schools around the world, where the dominant language and culture are imposed on indigenous children.

Similar schools have existed in the histories of Australia, Canada and the US, where they are known as “residential schools”. As well as accelerating the extinction of hundreds of indigenous languages, the trauma inflicted on victims and communities carries down the generations and is still inflicting suffering to this day. Join us now to support a model of education for indigenous children that is rooted in the land, language, knowledge and beliefs of the community. Not only to give them a sound education but also to take pride in themselves and their people; for tribes, for nature, for all humanity.

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